L’ultima boccata di sigaretta. Poi inizierò a raccontare.
Guardate. Quello è lo Stari Most, il famoso Ponte Vecchio. E quelli alle due estremità sono i Mostari, le due torri che sembrano essere dei guardiani. Il ponte è del Sedicesimo secolo, anzi era, perché è stato distrutto da un mortaio Croato durante la guerra di Jugoslavia. Poi è stato ricostruito. Comunque proprio una guerra tra poveri dico io.
Inizio a frugarmi nelle tasche. Nervosamente. Vesto un eskimo militare. È pieno di tasche. Dopo un po’ trovo quello che cerco. Un gualcito e bisunto pacchetto di sigarette di contrabbando. Russe. Ne prendo una e la incastono fra le labbra. Prendo una scatolina di cerini, ne sfrego uno con delicatezza e lo accendo, poi porto la fiammella tremolante con gesto sapiente verso la sigaretta. L’accendo aspirando, aspirando con voluttà. Chiudo gli occhi, quasi a volermi raccogliere. Li riapro soffiando via il fumo dai polmoni.
Quanto mi piace fumare non potete capire! Quando giocavo, e come giocavo, ne fumavo solo un paio al giorno. No, macché sigarette, di pacchetti!
Io sono nato qui, a Mostar. Allora era Jugoslavia, oggi Bosnia Erzegovina. Io però mi sono sempre sentito Bosniaco. Ma questa cosa ve la dirà ogni ex Jugoslavo: tutti si sono sempre sentiti Serbi o Croati o Montenegrini e così via.
Ho iniziato a tirare calci ad un pallone con il Velez Mostar a metà degli anni Settanta. Vedete, proprio lì, su quel campo, dietro quelle case. Ci sono rimasto per ben sei stagioni e ci ho vinto una Coppa di Jugoslavia. Ero una mezzala dai piedi sopraffini. Tocco delicato e grande visione di gioco. A diciannove anni già nazionale Jugoslavo.
Il primo contatto con l’Italia risale al millenovecentoottanta. Si gioca proprio a casa mia, a Mostar, un incontro valevole per le qualificazioni alle Olimpiadi di Mosca. Mi ricordo i risolini degli Italiani quando mi hanno visto in campo. Zazzera riccia e barbone incolto. A fine partita non ridevano più però. Abbiamo vinto cinque a due. Tanto per gradire ho realizzato tre reti, e ai Giochi Olimpici ci vado io, Blaž Slišković detto Baka. Con i miei compagni, ovvio. Che bei ricordi di quell’Olimpiade. Soprattutto ho conosciuto una ginnasta Russa ch’era un amore: un viso bellissimo, due occhi azzurri grandi grandi e un corpicino da favola. Cazzo se avevo perso la testa. Intanto subito dopo quei Giochi, è il millenovecentoottantuno, l’Hajduk Split si assicura le mie prestazioni. L’Hajduk è una squadra forte, di tradizione, che spesso gioca le competizioni europee. Con loro ci ho giocato cinque stagioni e pure lì ci ho vinto una Coppa di Jugoslavia.
Però quella ginnasta Russa mi aveva proprio fatto perdere la testa. Ci pensavo continuamente, giorno e notte. La carne è carne e così un giorno di punto in bianco abbandono baracca e burattini e scappo per andare da lei. Una romantica fuga d’amore lunga un anno. Poi sono rientrato ed ecco abbattersi su di me la nemesi dell’Hajduk: un grave infortunio mi tiene lontano dai campi per quasi un altro anno. Do ut des! Accendo un altra sigaretta. Scusate.
Siamo al millenovecentoottantacinque. Ed ecco il mio secondo assaggio d’Italia. L’Hajduk gioca la Coppa UEFA. L’urna del sorteggio ha detto che affronteremo per il secondo turno il Torino. La partita d’andata si gioca al Comunale. Finisce uno a uno, e io porto in vantaggio la mia squadra con un gran tiro al volo. Due settimane dopo a Spalato una mia punizione da trenta metri trafigge il portiere granata. Vinciamo tre a uno e passiamo il turno. A quelle partite assiste pure Giovanni Galeone, grande allenatore e grandissimo amico. “È il giocatore più forte che abbia allenato. Al calcio d’oggi con un Moggi qualsiasi alle spalle, sarebbe da Pallone d’Oro”. Giovanni è sempre stato troppo buono.
Sempre nell’ottantacinque sono stato eletto giocatore Jugoslavo dell’anno. Hanno iniziato a darmi nomi altisonanti. “Il genio di Mostar.” Il Maradona dei Balcani. Addirittura! Fateci caso nasce un Maradona in ogni luogo della terra. Ma parliamoci francamente, di Maradona ce n’è uno solo secondo me. Io ero molto forte, questo sì, e mi bastava essere Baka.
Sono sotto i riflettori, le luci della ribalta sono tutte mie, e così l’anno dopo sbarco a Marsiglia, per giocare con l’Olympique. Droit au but c’è scritto sulle maglie dell’OM. Quell’anno di reti ne ho segnate solo sei, ma tante e poi tante le ho fatte segnare. Però succede che qualcosa non va. Devo cambiare aria e chiedo di essere ceduto in prestito.
Alla prima uscita, in Coppa Italia, contro il Genoa vado subito a segno. Poi incontriamo la Roma. Durante la gara, palla al piede, affronto Bruno Conti. Giocatore meraviglioso. Gli faccio una finta di corpo, e lui istintivamente apre le gambe, non tanto, ma quel tanto che basta per farci passare sotto il pallone. Tunnel. Non è mancanza di rispetto. È calcio!
Poi c’è l’esordio in campionato. Il neo promosso Pescara affronta l’Internazionale di Milano a San Siro. Dura contro la corazzata del Trap. Però finisce due a zero per noi. Ho pure castigato Walter Zenga su calcio di rigore! Il calcio non è una scienza esatta!
Quell’anno è stato proprio bello. Mi sono tolto tante soddisfazioni, ho segnato otto reti, ho conosciuto Giovanni con cui c’era una grande intesa e diventammo grandi amici. Portammo i Delfini ad una storica salvezza, a tutt’oggi l’unica. E poi ho bevuto litri e litri di caffè. Viaggiavo alla media di dieci al giorno!
Poi però a fine stagione ritorno in Francia, ero solo in prestito al Pescara. E inizio a girare: Lens, Mulhouse, Rennes, fino al novantadue. Ho trentatré anni. Mi arriva una chiamata. “Sono Giovanni, Baka. Sono di nuovo al Pescara. Ci riproviamo?” E perché no!
Però il viale del tramonto l’avevo già imboccato. Il miracolo della salvezza non lo abbiamo ripetuto.
I miracoli si fanno da giovani, a trentatré anni si è pronti per la croce.
Faccio per prendere il pacchetto di sigarette. Cazzo è vuoto. Era l’ultima!
Vabbè, scusate?
Avete una sigaretta?