Cileno di padre ungherese

Carlos Humberto Caszely Garrido

Carlos Humberto Caszely Garrido

Attaccante, nato a Santiago del Cile, il 5 luglio 1950

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Sono stato un calciatore e questo mi ha dato dei privilegi è vero, non lo nego. Ma essere stato un calciatore mi ha dato anche delle grandi responsabilità. Ad ogni modo prima di ogni cosa sono un essere umano. E un essere umano non può stare fermo a guardare gli altri soffrire.

Come la maggior parte dei calciatori del mio tempo, non avevo certo nobili natali, anzi. Mio papà era di origini Ungheresi, faceva Caszély di cognome, ed io sono l’ultimo dei tre fratelli Caszély, Carlos. Il nome lo ha scelto mia madre Olga. Vivevamo in un quartiere popolare. E dove mai potevamo vivere? A San Eugenio a Santiago del Cile.

In quel barrio c’era la scuola. Ci andavo perché non volevo essere ignorante, perché l’ignoranza è l’arma più forte di tutti i potenti, e perché faceva piacere ai miei. Subito dopo la scuola però scappavo perché c’erano le partite improvvisate con gli amici. Mi è sempre piaciuto avere come obiettivo quello di finalizzare gli sforzi dei compagni, mi è sempre piaciuto fare goal. Questo particolare talento mi scorreva nelle vene. Non so come spiegarlo altrimenti. Non ero né alto né magro, ma ero rapidissimo come pochi, di gambe e di testa. Evidentemente qualcuno al Colo-Colo deve essersene accorto, perché mi vollero con loro, e con “El Popular” ho vinto tanto nella mia carriera. Hanno iniziato a chiamarmi “el Rey del metro cuadrado”. Se la palla arrivava in area, nel mio metro quadrato, non c’era scampo.

Salvador Allende eletto presidente

Ho sempre coniugato gli studi e la passione per il calcio, le cose d’altronde non si escludevano. Bastava solo un poco di buona volontà. E a me di certo non mancava. Al liceo poi mi sono accorto che oltre al calcio c’era qualcos’altro che iniziava ad intrigarmi. Iniziavo a sentire sotto la pelle l’amore per la politica, quella vera! E così ho iniziato la militanza attiva nei gruppi della sinistra cilena. Arriviamo così al millenovecentosettantatre, anno che vede il Cile impegnato nelle elezioni parlamentari, elezioni che sanciranno la vittoria democratica di Salvador Allende e di Unidad Popular. Io, nel mio piccolo, a quella vittoria elettorale ho contribuito visto che durante la campagna elettorale sono stato molto attivo.

In quei giorni non mi bastavano ventiquattro ore: studiavo, mi allenavo, giocavo e facevo politica. Con il Presidente Allende ho avuto una meravigliosa amicizia, schietta e sincera, come dovrebbe essere un amicizia tra due esseri umani. Durante la finale di Copa Libertadores contro l’Independiente il Presidente ci ricevette tutti al consolato cileno di Buenos Aires e mi chiese di farsi scattare una fotografia. Abbracciato a me, Carlos Caszély, cileno figlio di padre Ungherese. Lo capite! Capite la forza dirompente di quel gesto di schietta amicizia! Il Presidente della speranza e l’attaccante del popolo, lui che doveva risollevare un paese e io che dovevo fare goal per un paese. Due obiettivi diversi per un’unica causa. Io poi per “La Roja” di reti ne ho segnate ben ventinove.

Cile, colpo di stato

Purtroppo quella Libertadores rimase in Argentina, ma non fu facile per loro, li portammo alla terza partita sul campo neutro di Montevideo, e perdemmo degnamente dopo i tempi supplementari. E purtroppo il Presidente Allende, il Presidente dell’esperimento socialista, l’undici settembre di quel maledetto stramaledettissimo millenovecentosettantatre venne assassinato durante il golpe di Augusto Pinochet. Il Generale Augusto Pinochet. Tutto pagato e orchestrato dagli Americani e dalla loro stramaledetta paura che i comunisti mangiano i bambini!

Caszely al Levante

Durante quei giorni di paura e terrore io non c’ero. Durante i bombardamenti alla Moneda, durante gli arresti, le deportazioni, le torture io non c’ero. Ero in Spagna dove giocavo per il Levante. Ero al sicuro a Valencia mentre nel mio paese una lotta fratricida stava infangando tutto il paese. Leggevo e apprendevo dai giornali quello che stava accadendo, incredulo, spaesato, sgomento. Non riuscivo a capire come in un mondo libero potessero succedere cose di questo genere. Poi arriva il ventuno novembre, una data vergognosa, apoteosi di tutte le vergogne. È in programma il ritorno dello spareggio per la partecipazione alla Coppa del Mondo del millenovecentosettantaquattro contro l’Unione Sovietica. La partita d’andata era terminata sullo zero a zero. Si gioca a Santiago del Cile, all’Estadio Nacional. Che porcheria! I militari hanno rimesso tutto a nuovo, un po’ d’acqua e di vernice e pensano di aver cancellato il sangue, il dolore di quello che era diventato un campo di sterminio a cielo aperto per gli oppositori del regime. Un luogo dove le donne venivano torturate e violentate, dai militari e dai loro cani.

Per protesta l’Unione Sovietica non inviò la squadra nazionale in Cile, avevano fatto richiesta alla FIFA di giocare in campo neutro, ma quelli si erano semplicemente girati dall’altra parte. Questa cosa era risaputa, ma il regime voleva che una partita si disputasse lo stesso, così noi giocatori prendemmo parte alla “partita che non ebbe mai luogo”, o almeno non con l’Unione Sovietica! Ci viene assegnata la vittoria a tavolino. Per noi un successo imbarazzante, per il regime la gloria, con tanto di parata! Organizzarono una partita amichevole, tutti i gerarchi in pompa magna in tribuna d’onore, i militari a bordo campo. Non ho mai provato tanto schifo e tanta vergogna in vita mia. Avevo la sensazione di essere uno strumento di propaganda nelle mani di quei vigliacchi torturatori figli di puttana. Così pensai ad un modo per tirarmi fuori da quella porcheria: quando mi arriverà il pallone lo butterò fuori. Poi la palla arriva e io gioco. Non giudicatemi per questo, mi è mancato il coraggio, ho pensato con egoismo alla mia famiglia, non tanto alla mia vita, ma a quella dei miei cari, mi è mancato il coraggio di dire no. Negli spogliatoi sono stato male, come il mio compagno Chamaco Valdes, convinto socialista pure lui, vomitavamo l’anima. E mentre vomitavo l’animaccia mia mi dicevo “è l’ultima volta che dico sì!” E cazzo così è stato!

Grazie a quella farsa di partita andiamo ai Mondiali di Germania, e prima della partenza il Generale voleva pure darci la sua benedizione. Radunò tutta la squadra Nazionale ed iniziò la sua grottesca rivista stringendo la mano ad ogni giocatore. Mi sono detto: “Carlos! Stavolta no!” Quando mi arriva difronte in tutta la sua comica prosopopea e mi tende la mano, io, Carlos Caszély, Cileno di padre Ungherese, lo fissò negli occhi e resto composto con le mani dietro la schiena. La mano a quel porco non gliel’ho data!

I Mondiali furono una delusione, per il Cile e per me, che mi feci espellere nel match d’esordio a Berlino Ovest contro i padroni di casa della Germania Ovest. Quello fu il primo cartellino rosso nella storia dei campionati del mondo, e venne sventolato proprio davanti alla mia faccia. Rosso vs. rosso. Ma non mi fregava niente, non stavo giocando per il mio paese, ero costretto a giocare per il regime, e, se devo proprio dirla tutta quel fallimento fu una vera goduria! Da quel momento la maglia della “Roja” mi è preclusa, anche se in Spagna non avevo perso il vizio di segnare. Per volere dei vertici militari Carlos Caszély non deve giocare più con la Nazionale. Perché? Perché io non rappresento il Cile, i nuovi simboli della squadra devono essere altri: don Elias Figueroa, molto vicino a Pinochet, o Oscar Fabbiani, Argentino appositamente naturalizzato.

Poi però nel millenovecentosettantotto decido di tornare a casa. Lascio l’Espanyol di Barcellona. Avevo bisogno di stare vicino a mia madre che aveva sofferto la cattiveria del regime. Quei figli di puttana l’avevano rapita, torturata, umiliata. Mia madre Olga. Vigliacchi. Le loro sudicie e subdole vendette trasversali. In Cile per me era già pronta la maglia del Colo-Colo, e per tre anni di fila sono stato capocannoniere. Così alla faccia del regime e a furor di popolo non solo sono tornato a vestire la maglia del Cile, ma andrò pure in Spagna nel millenovecentoottantadue. Contro l’Austria però succede che sbaglio un calcio di rigore, e così la stampa di potere scrive che l’ho fatto apposta! Che scrivano ciò che vogliono e soprattutto che si fottano!

Ritorno al Colo Colo

Un giorno durante un incontro ufficiale, io e il generale ci incrociamo di nuovo. Sarà stato il caso o chissà cosa, avevo una bella cravatta rossa! Quando la vide, indosso a me poi, a momenti gli prende un infarto e mi intima con voce soffocata dall’ira di toglierla. “Questa è sempre qua, vicina al mio cuore” ho risposto. “Gliela taglierei” ringhiò il generale.

Il giorno in cui ho deciso di dire basta con il calcio è stata una festa, la mia partita d’addio si è trasformata in una manifestazione contro la dittatura. Preludio alla mia grande rivincita, che arriva il cinque ottobre del millenovecentoottantotto, quando viene indetto il referendum per decidere se approvare un ulteriore mandato al Generale Pinochet o porre fine al suo regime dittatoriale. Ho sempre fatto politica attiva, sin dai tempi del liceo, e proprio non potevo tirarmi indietro. Poi mi sono cagato addosso una volta e quella è bastata. Nel mio piccolo ci ho messo addirittura la faccia, la mia e quella di mia madre! Il fronte dell’opposizione volle che prendessimo parte ad una campagna pubblicitaria che invitava i cittadini cileni a mettere un punto definitivo alla dittatura. In primo piano si vede una donna sulla sessantina, seduta su un divano a fiori, è vestita con una camicia bianca e ha i capelli neri, tinti. Inizia a parlare: “Sono stata sequestrata e picchiata brutalmente. Le torture fisiche sono riuscita a cancellarle, quelle morali non posso dimenticarle. Per questo io voterò No”.

Sulla parete si vede un gagliardetto del Colo-Colo, la squadra più titolata di Santiago del Cile. Ad un certo punto entro in scena io avvicinandomi alla signora, e inizio a spiegare le mie personali ragioni per il “no”:
Perché la sua allegria è la mia allegria.
Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti.
Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere”.
E perché questa bella signora è mia madre”.

E perché a Pinochet ho detto già sì una volta ed è stata una volta di troppo!

Immagini
  1. Illustrazione Carlos Caszely, basata su rivista Estadio (Chile)
  2. Biblioteca del Congreso Nacional [CC BY 3.0 cl], via Wikimedia Commons
  3. Biblioteca del Congreso Nacional [CC BY 3.0 cl], via Wikimedia Commons
  4. Caszely torna al Colo Colo - Copertina Deporte Total
  5. Caszely al Levante - Colgados por el Futbol
Pubblicato in precedenza su Poetarum Silva
Le parole liberamente attribuite a Carlos Humberto Caszely Garrido sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, sono ispirate a fatti realmente accaduti e in seguito romanzate.