Penso, dunque sono!
Non tengo tanto ad essere un campione di calcio quanto un uomo democratico, anzi, un brasiliano democratico. Essere campioni è un dettaglio: si vinca o si perda la cosa più importante è essere uomini. Bisogna avere il coraggio delle proprie azioni ed essere forti abbastanza da sopportarne il peso.
Il calcio non è mai stato l’aspetto più importante della mia vita, le passioni invece, quelle si che sono importanti. Io ne ho tante davvero: la politica, la medicina, la musica, la cervejinha gelada, le sigarette. Non necessariamente in quest’ordine! E non necessariamente passioni.
Sono nato a Belém, nel Pará, all’estremo Nord del continente brasiliano. Sono alto, molto alto, uno e novantatré. Barbuto. Piede piccolo e delicato, a stento arrivo a calzare il trentotto. In molti si sono sempre chiesti come facessi a restare in piedi. Amo il colpo di tacco. È un gesto fuori dal comune. Tutti utilizzano il piatto, il collo o la punta del piede. Già utilizzare l’esterno è considerato un gesto tecnico di prima grandezza. Ma il colpo di tacco, quello è un colpo al sistema, è fuori legge! Ho un fisico asciutto, segaligno. Non sono certo un atleta come lo immaginate voi, e men che meno ho il fisico da giocatore di futebol. Però ho una buona visione di gioco, essere più alto degli altri mi ha avvantaggiato, segno tanti goal ed esulto col pugno chiuso.
Mio padre Raimundo era un uomo di sinistra, un proletario. Per essere uno che aveva la seconda elementare aveva una cultura spaventosa. Leggeva di nascosto i libri proibiti. Siamo mica nel Medioevo state pensando. Non c’era mica il Grande Inquisitore Torquemada! Vero, siamo nel millenovecentosessantaquattro, gli anni della dittatura del maresciallo Castelo Branco. Una dittatura è una dittatura! Quindi come in tutti i regimi che si rispettino chi contravviene alle regole spesso sparisce senza lasciare traccia. Per fortuna il Brasile è un paese grande e i tentacoli della dittatura non sono così lunghi ed articolati. Fatto sta che il mio buon padre riesce a leggere di tutto, anche la “Repubblica” di Platone. Ed è da questo libro che viene fuori il mio nome. Sócrates. Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira. Una lunga, meravigliosa musicale filastrocca.
Mi hanno affibbiato un sacco di nomignoli, “O Doutor”, “Magrão”, “Crâtes”, ma il mio preferito in assoluto è sempre stato “O calcanhar que a bola pediu a Deus”. Il colpo di tacco che la palla chiese a Dio. Pura poesia brasiliana.
Vedete io poi medico lo sono per davvero. Ho iniziato la facoltà di Medicina all’USP di Ribeirão Preto. Questo non mi ha certo impedito di giocare al calcio, un gran bel passatempo. Il mio primo club è stato il Botafogo, non quello che pensate voi, quello di Rio, ma più semplicemente quello di Ribeirão Preto.
Fu mio padre Raimundo a parlare con i dirigenti. “Lo studio per il Gordo viene prima di ogni cosa” disse loro. “Se volete giochi per voi questa è la condizione”. Accettarono. Mi allenavo una volta alla settimana e giocavo le partite. Ai miei compagni di squadra non dava così fastidio, sapevano quanto amore mettessi nello studio e quanto in mezzo al campo. Con me vincevano ed erano certi di prendere i premi partita. A ventiquattro anni sono diventato dottore in medicina, e solo allora ho fatto il grande salto nel calcio che conta. Se adesso i laureati nel nostro mondo si contano sulle dita di una mano, allora era ancora peggio. In Brasile poi!
Io mi ritengo un buon giocatore eppure in Brasile mi considerano un gran calciatore. Ma così tanto che il São Paulo e il Corinthians si contendono i miei servigi sportivi. Alla fine accetto di giocare per il Corinthians. Uno dei club più importanti del Brasile assieme al Flamengo di Rio e al Santos, la squadra per cui ho sempre fatto il tifo sin da piccolo. Soprattutto squadra del popolo, fondata nel millenovecentodieci dai proletari della città di São Paolo per sottrarre il calcio all’elite cittadina. Come posso rinunciare ad una chiamata del Timão!
Si dice che il Diavolo ci mette lo zampino. Beh, nel mio caso è proprio vero! Arrivo al Timão in concomitanza del cambio di dirigenza, insieme a un gruppo di giocatori, Casagrande, Palhinha, Wladimir, Zenon, Biro-Biro, capaci di pensare e mettersi in discussione, e con un direttore tecnico, Adílson Monteiro Alves, che di calcio non capisce letteralmente nulla perché è un sociologo e continua a farlo il sociologo.
Queste particolari circostanze hanno creato l’humus perfetto per qualcosa di unico e grande: in un paese che sogna la democrazia ed è governato dalla dittatura, noi, una squadra di futebol, realizziamo questo sogno. La democrazia, appunto.
Siamo un gruppo di persone, né idoli né altro, uomini in carne ed ossa, ogni testa un voto. Costituiamo un’assemblea che si incontra, sul prato verde del campo o all’interno dello spogliatoio, e che ha qualcosa di cui parlare e di cui decidere. Niente più gerarchia, l’allenatore, io, il presidente, il secondo portiere, il magazziniere, tutti abbiamo lo stesso peso. Così ha preso corpo una delle illusioni più ricorrenti nella storia umana, per poco, questo è vero, ma di sicuro la nostra democrazia, la “Democracia Corinthiana” è stata la più divertente, leggera e meglio riuscita di tutte.
La parola d’ordine è autogestione. Ogni decisione in seno al club viene presa in maniera collettiva: dagli orari degli allenamenti alla campagna acquisti-cessioni alla formazione che deve scendere in campo. Una delle prime cose che decidiamo è quella di abolire le regole ferree e l’obbligo del ritiro. Dico, non siamo in prigione! Già di per se stesso è offensivo obbligare qualcuno a fare qualcosa, noi poi ci divertiamo con il pallone, perché dovremmo sottostare a regole dittatoriali, noi che la dittatura la combattiamo! Decidiamo semplicemente che chi non vuole raggiungere la squadra in albergo può presentarsi direttamente al campo di gioco per la partita.
Un sacco di gente, compreso qualche compagno di squadra, ha detto che in realtà era tutto un gran casino, non “Democracia Corinthiana” ma “Anarquia Corinthiana”!
Lasciate pure che parlino. Non solo abbiamo vinto il Campionato Paulista per due anni consecutivi (ottantadue e ottantatré), e il terzo fummo battuti in finale dal Santos, ma siamo anche riusciti a risanare le finanze di un club sull’orlo del fallimento. La finale vittoriosa del primo Paulista la ricordo mica per la vittoria, quella è relativa, lo sapete, la ricordo perché la squadra è entrata in campo cantando e ballando sulle note di una canzone di Gilberto Gil.
I risultati comunque non sono arrivati subito. I primi tempi sono stati davvero duri per me. Ma alla fine sono arrivati, a volte non senza polemiche. Una volta dopo una partita persa siamo stati costretti a difenderci dall’assalto della torcida. Io i compromessi non li ho mai amati, di compromessi con i tifosi poi non voglio nemmeno sentirne parlare. Nella partita seguente ho realizzato tre reti e non ho esultato. Perché? Ma perché queste persone vanno educate poco alla volta. Non siamo dei, idoli o chissà cosa, siamo uomini. Tutti, noi in campo e loro sulle gradinate.
Non voglio dirvelo io, potrei sembrare presuntuoso, ma chi ci ha visto all’opera vi dirà che giocavamo a ritmo di musica, a ritmo di samba. Niente aggressività: Zenon detta i tempi, io, Sócrates, illumino, e con Casagrande e Palhinha segniamo, Wladimir difende con pragmatismo ed eleganza e Biro-Biro canta e porta la croce. Vedete il destino, Zenone e Socrate che giocano nella stessa squadra. La mia maieutica per far partorire i goal si sposa con la dialettica ed il paradosso del regista Zenon.
Ma possiamo e dobbiamo fare di più. Abbiamo il potere di veicolare un messaggio più grande ogni volta che giochiamo, quando vengono a vederci prendere a calci un pallone di cuoio in calzoncini corti. Vogliamo che la gente capisca che il cambiamento non solo è interessante, ma è possibile. Sembra una sciocchezza ma trasmettere dei messaggi attraverso il calcio durante la dittatura è l’unico modo per far passare dei concetti che altrimenti sarebbero rimasti lettera morta. Ed ecco l’idea: utilizzare la maglia di gioco per sensibilizzare la gente, non solo la nostra torcida, perché la libertà è di tutti.
Ospitiamo slogan politici come la semplice e potente parola “Democracia”, tal volta scritta al rovescio per esprimere dissenso contro il governo del Genarale Figueiredo, o l’ardito “Dia 15 Vote”.
Ma cari amici, tutte le cose belle hanno una fine, e forse è un bene. Chissà. Fatto sta che ad un certo punto al Corinthians le cose tornano ad essere quelle di prima e il giocattolo viene smantellato. Non mi piacciono le mezze misure, mi ero prodigato senza risparmiarmi per “Diretas Já”, mi ero esposto come tanti altri, volevamo che il “povo” potesse eleggere il suo presidente, e in un comizio ho detto che sarei rimasto in Brasile, e, nonostante tutto, al Timão, se il Parlamento avesse votato un emendamento costituzionale per ristabilire elezioni libere.
Com’è andata dite? Sono arrivato in Italia, a Firenze, dove gioco per la Fiorentina.
Voi avete avuto la possibilità di conoscermi attraverso una partita. Una sola. Al Mundial in Spagna. Seleção contro Italia, quando il calcio samba sbatte brutalmente contro il muro azzurro. Però, quanta paura vi ho fatto quando il mio destro incrociato su invito di Zico alza uno sbuffo di gesso sulla linea di porta dietro la gamba protesa di Zoff ed entra in rete?
Io per quello sono arrivato in Italia. E nel vostro Bel Paese ho ritrovato tutto quello che volevo combattere nel mio di Paese, compresa una dittatura bigotta, di una Democrazia per giunta, quella Cristiana.
Hanno detto e hanno scritto che non voglio allenarmi, che non sopporto i ritiri, che fumo un pacchetto di sigarette al giorno e anche più, che adoro bere birra, tirare tardi la sera e discutere di politica. Bene, è tutto vero. È la sacrosanta verità.
E non è, come scrivono sui giornali quei soloni di giornalisti, questione di saudade. È proprio che il mio fisico non è abituato ad allenamenti così intensi e soprattutto non ho mai corso ad alta quota. In Brasile i sistemi sono nettamente diversi. Si va in forma giocando. Non esistono questi periodi massacranti di preparazione atletica. Ecco cos’è. Mi avevano chiesto se volevo fare come Falcão alla Roma, un ritiro più leggero, a parte, non seguendo i compagni in montagna. “No” ho detto “farò esattamente come tutti gli altri”. Una volta Antognoni che era infortunato ma era pure lui in ritiro per la riabilitazione mi ha visto steso mezzo morto sul prato, si è avvicinato e mi ha chiesto: “Dottore, tutto bene?”.
“Antonio ti devo fare una domanda, ma in Italia anche i campi di calcio sono in salita?”.
Quando sono arrivato ho detto: “Sono proprio quello che sapete, che scrivete, che pubblicizzate”. In realtà non mi conoscevate se non per quel Brasile Italia.
Non sono come il mio amico Zico, ne tantomeno come quell’Argentino dalla faccia sporca. Loro hanno doti individuali eccelse, io mi metto al servizio del collettivo, ma per farlo devo convincere i miei compagni che sono utile. Loro invece le partite le vincono da soli.
Comunque debbo dire in tutta onestà che avrei faticato in qualsiasi squadra, anche in Brasile! Ma, da quel che ho visto da voi, la società più adatta a me sarebbe stata la Cremonese: non è una battuta, è simpatia vera per l’ambiente.
Ad ogni modo amici cari io ho sempre fumato pur sapendo che fa male, così come amo bere una cervejinha gelada. Oggi come allora. Ma il calcio è uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano.
Io penso.
Dunque sono!
- Corinthians estampa no uniforme a chamada para eleições diretas de 15 de novembro de 1982 , para a escolha do Governador do Estado. Foto: Trecho do filme “Democracia em Preto e Branco”. A Democracia Corintiana
- "Socrates (futebolista) participando do movimento político Diretas Já" Jorge Henrique Singh - Opera propria. Con Licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.
- "Sócrates - Mondiale di Spagna 1982 - Romualdo Zapponi
- "Socrates Fiorentina". Con licenza Pubblico dominio - tramite Wikipedia
- "Fiorentina, 1984 - Claudio Gentile, Daniel Passarella e Sócrates" - Pubblico dominio tramite Wikipedia