“L’estate di Bobby Charlton”, è il titolo di un film italiano dimenticato e dimenticabile nel quale si racconta la vicenda drammatica di una famiglia durante il mondiale del 1966 in Inghilterra. Quel nome, Bobby cioè Robert, e quel cognome, Charlton, sono soltanto un pretesto per collocare la storia in un tempo preciso: il luglio del 1966.
Era dunque l’estate di Bobby Charlton, quando m’innamorai del centravanti della nazionale inglese. Avevo tredici anni, non ero ancora stato in Inghilterra, ma da lì arrivava un vento nuovo: la musica dei Beatles, la minigonna di Mary Quant, i giovani con i capelli lunghissimi – i capelloni, appunto – e un’idea di libertà che nell’Italia laboriosa ma molto ingessata di allora appariva rivoluzionaria. Ero un ragazzo che leggeva almeno un quotidiano al giorno, amava lo sport – il calcio e il ciclismo, soprattutto – e pregustava felice il primo mondiale televisivo di sempre. Il meglio, tutto in tv. Volevo fare il giornalista, nient’altro che il giornalista. A scuola, dov’ero un anno avanti, durante l’intervallo tiravo fuori il mio bel giornale e cominciavo a leggerlo, per poi continuare a casa dopo il pranzo. Ero considerato un po’ strano, per quest’abitudine così diversa. D’improvviso, tra una lettura e una diretta, scoprii questo giocatore, che non era molto bello, ma correva molto e segnava molto, ed era più di un attaccante, era un regista mobile, di un altruismo straordinario. E aveva un tratto distintivo che ai miei occhi lo rendeva fantastico: era un campione di lealtà e correttezza. E per queste ragioni, celebrato anche in Italia. Scoprii più tardi che, in una carriera lunghissima, non è mai stato espulso, né ammonito. Un curriculum identico ha avuto più tardi Gary Lineker, il centravanti dell’Inghilterra a Italia 90, che gli ha insidiato il record dei gol in nazionale (49), poi battuto da un altro fuoriclasse di nome Wayne Rooney (53).
Ricordo che gli inviati dei giornali italiani in Inghilterra, dopo l’eliminazione azzurra per mano della Corea del Nord, descrivevano Charlton come il simbolo del calcio ideale. Grande agonismo e grande lealtà. Non gli inglesi erano come lui, anzi il mediano Nobby Stiles era celebre per la durezza intimidatoria dei suoi interventi. Ezio De Cesari sul Corriere dello sport e Emilio Violanti sulla Gazzetta dello sport non avevano dubbi: con un giocatore così completo, l’Inghilterra andava considerata la grande favorita per il successo finale, nonostante la concorrenza della Germania, dal collettivo indistruttibile e del Portogallo, che aveva trovato nel formidabile Eusebio un trascinatore senza eguali. Qualche dubbio in più aveva, invece, Gianni Brera sul Giorno, che non aveva molta simpatia per i britannici. E definì il trionfo di Wembley “il capolavoro di Stanley Rous”, che era il presidente inglese della Fifa. Secondo Brera, Rous fu abilissimo nel far designare un portalettere svizzero, Dienst – che in tedesco significa servizio, nel senso di assistenza – per la finale contro la Germania, risolta dal più celebre dei gol fantasma della storia, il 3-2 dell’inglese Geoff Hurst.
La scoperta di Charlton ha indotto, come spesso accade, altre scoperte. Capita di leggere, e a me capitò molto presto, di leggere “I quarantanove racconti” e di scoprire, per induzione appunto, i grandi romanzi di Ernest Hemingway, a cominciare da “Per chi suona la campana”. Legati direttamente a Charlton c’erano la tragedia aerea di Monaco di Baviera, il tecnico scozzese Matt Busby rimasto a lungo tra la vita e la morte, ma determinato a ricostruire la squadra appena perduta, il giovanissimo Bobby sopravvissuto per miracolo, il Manchester United colpito al cuore così come il Torino nove anni prima. In quelle settimane, mentre l’Inghilterra volava verso il mondiale, decisi così di diventare un fan dello United. Non avevo già una squadra del cuore, ammiravo Rivera e Mazzola, fui colpito dall’addio di Sivori alla Juve, lo United era un modo per distinguermi tra gli amici, per uscire dal triangolo Inter-Juve-Milan e soddisfare il desiderio di un’Europa senza confini, di un calcio aperto al mondo. Già allora, le coppe europee, e in maniera particolare la coppa dei Campioni esercitavano su di me un fascino irresistibile.
Bobby Charlton fu il protagonista del mondiale, al di là della doppietta con cui l’Inghilterra liquidò in semifinale il temutissimo Portogallo. Non a caso, gli fu assegnato il Pallone d’oro nello stesso anno. Era paragonato ad Alfredo Di Stefano, che rappresentava il massimo, perché come lui sapeva giocare dappertutto. Centravanti di movimento, si diceva allora. Mezzala. Regista. Rifinitore. Personalità da leader, senza per questo sbracciarsi e urlare. Un leader di compostezza. Ottimo tiratore anche da lontano. Forte nel gioco aereo. Accanto a lui, segnavano tutti: in nazionale, Hurst e Hunt, nello United Law e Best.
A quasi ventinove anni, ebbe con il mondiale la consacrazione internazionale, ribadita nel 1968 con la conquista della coppa dei Campioni da parte del Manchester United, la prima di un club inglese, la seconda di un club britannico (nel 1967 il Celtic). Nella finale, ancora a Wembley, contro il Benfica di Eusebio, Charlton si regalò una doppietta. Dieci anni dopo Monaco, sul tetto d’Europa c’erano lui, Busby e lo United. Lo avevano promesso ai giovani compagni morti nella sciagura, a Duncan Edwards, un potenziale fuoriclasse, a tutti gli altri.
Ricordo con nitore che ogni volta che Charlton prendeva la palla c’era la sensazione che stesse per accadere qualcosa di importante. Era quello che aveva pensato Busby quando, dopo il disastro di Monaco che aveva lasciato tracce dolorose nel suo giovane talento, gli affidò la squadra della rinascita. Lentamente, lo United risalì al vertice, vinse la coppa d’Inghilterra e poi il campionato nel 1965 dopo uno sprint mozzafiato e solo per il miglior quoziente-reti (non differenza-reti) con il Leeds.
Molti anni dopo il mondiale del 1966, ha conosciuto di persona Bobby Charlton a Manchester, alla viglia di una delle numerose sfide tra gli inglesi e la Juve. Gli ho stretto la mano, ho scambiato poche parole con lui, gli ho chiesto come sia riuscito a non subire mai un provvedimento disciplinare da parte degli arbitri, neppure per una protesta: “Non ho fatto niente di speciale, è stato tutto molto naturale”. Lasciò la nazionale dopo il Messico, dopo la tremenda delusione dei quarti di finale: l’Inghilterra sognava di ripetersi, era sul 2-0 contro i tedeschi, tutto sembrava fin troppo semplice nella fornace di Leon, quando un errore del portiere Bonetti – che sostituì l’insostituibile Banks – rianimò la Germania che s’impose per 3-2 nei supplementari. “Anche allora, per me è stato naturale dire basta”. Un grande uomo, di una semplicità inimmaginabile. Un uomo che va sempre allo stadio solo perché ama il football. Sempre in compagnia della moglie, Norma, che lo ha seguito per anni nelle trasferte da ambasciatore dello United, oltre a quelle al seguito della squadra. La sera prima della partita, la coppia sceglie un ristorante della città – a Torino, la Capannina, cucina delle Langhe e grandi vini piemontesi - e va lì a cena. Lontano dai riflettori. E se qualcuno riconosce l’antico campione e si avvicina per un autografo e una foto, Charlton si alza, firma e ringrazia.
- Bobby Charlton in posa per El Gráfico - via Wikimedia
- Olanda-Inghilterra 0-1. Bobby Charlton e Rob Rensenbrink - via Wikipedia
- Programma della finale di Coppa Campioni 1968 via Wikipedia