Tutto ha inizio laddove tutto ha avuto inizio.
Nel cuore dell’Africa.
Avete sotto mano un atlante geografico? Un mappamondo? Una carta geografica? Bene.
Portate il vostro sguardo all’Africa e cercate il Ciad, anzi, la Repubblica del Ciad. L’avete individuata? Certo che sì, è il quinto paese più grande per estensione territoriale del Continente Nero. Proprio lì, al centro, il cuore pulsante della culla dell’umanità. Proprio come me, Japhet N’Doram, il cuore pulsante del Nantes.
Il mio Paese natale, come del resto tutti gli stati Africani, è sempre stato sottoposto all’influenza straniera, da noi l’hanno fatta da padroni i Francesi per esempio. Dal milleottocentonovantuno al millenovecentosessanta ci abbiamo vissuto spalla a spalla. Così un po’ siamo francesi adesso, anche se ci sono oltre duecento gruppi etnici in Ciad. La lingua ufficiale è il Francese, oltre all’Arabo ovviamente, anche se ci sono oltre duecento gruppi linguistici. Anche il modo di pensare è inevitabilmente un po’ Francese, ma oggi, nel profondo, nel nostro cuore siamo fieri Ciadiani!
Sono nato il giorno ventisette di Febbraio del millenovecentosessantasei a N’Djamena, anzi, a Fort-Lamy come si è chiamata fino al millenovecentosettantatre. N’Djamena oltre ad essere la capitale è anche la città più popolosa del Ciad e si estende pigra sulle rive del fiume Chari, proprio di fronte alla città di Kousséri, ma quello è già Camerun.
Ho iniziato a giocare al calcio con il Tourbillon N’Djamena, la mia squadra adottiva. Il campo d’allenamento arido e polveroso era a soli cento metri da casa dei miei, ad Ardjoumal, un quartiere popolare che negli anni Settanta era conosciuto come Harlem City.
Mio padre mi ripeteva sempre che “al calcio giocano solo i gonzi, che nella vita l’importante è studiare”. Non ha mai saputo che fossi diventato un calciatore. Ha sempre continuato a credere che stessi portando a termine gli studi. Non ho mai voluto dargli questo dispiacere, poi, quando sono diventato un calciatore professionista e apprezzato, beh, era già passato a miglior vita.
Gli altri ragazzi arrivavano anche da molto lontano per potersi allenare, a me bastava percorrere un centinaio di metri o poco più. Ci giocava già mio fratello maggiore Jonathan, di undici anni più grande. Era lui a prestarmi pantaloncini e magliette per gli allenamenti. Ci stavo dentro due, tre volte. È stato lui il mio esempio sul terreno di gioco, e su quel campo ci ho passato tutta l’infanzia, respirando polvere ricorrendo un pallone a piedi nudi.
Poi è arrivato il millenovecentosettantanove. E con esso lo scoppio della guerra civile. Ho dovuto abbandonare la mia famiglia, scappavo per fuggire la guerriglia cittadina che imperversava per le strade di N’Djamena tra le fazioni del Nord e quelle del Sud, scontri molto cruenti, sanguinosi. Non si facevano prigionieri. Chi voleva salvarsi in quel delirio di follia che è una guerra fratricida doveva scappare, e così io non ho avuto molta scelta, anzi non ho avuto proprio scelta: se volevo salvare la pelle dovevo andar via. Una delle mie sorelle viveva in campagna e così mi rifugiai da lei, in mezzo al nulla. Fortunatamente la guerra ha risparmiato la mia famiglia ma mi ha segnato per sempre, in modo indelebile. Mi ha addirittura fortificato nello spirito la guerra. Ogni qual volta mi sono trovato in difficoltà sono sempre corso col pensiero a quei momenti drammatici, a quei giorni in cui non si sapeva se ci sarebbe stato un domani e mi sono sempre detto che il peggio l’avevo già vissuto, che peggio della guerra non c’è proprio niente.
In quasi totale isolamento ho vissuto per sette anni. Altro che sette anni in Tibet! Certo c’era mia sorella, ma soprattutto c’era un pallone, e con esso il fuoco della passione per il gioco del calcio. Sono riuscito a tornare a N’Djamena solo nel millenovecentottantasei e subito ho ripreso a giocare con il Tourbillon.
Poi però nel millenovecentottantotto mi sono detto che bisognava provare una nuova avventura sportiva, così sono andato in Camerun.
Ci sono arrivato da clandestino, cosa che era molto frequente. Ho messo il necessario in un sacco e ho attraversato il fiume che divide N’Djamena dal Camerun in piroga… pensare che c’è un ponte che collega N’Djamena al Camerun. Poi ho preso un passaggio su un camion fino alla prima stazione, di qui un treno per Yaoundè.
Ventiquattro ore di viaggio no stop.
Volevo vedere a che livello ero, e, a quel tempo, il movimento calcistico Camerunense era uno dei migliori e più apprezzati d’Africa. Non c’era posto migliore dove potermi mettere alla prova. Dovevo solo avere una chance. E questa benedetta chance non tarda ad arrivare perché in Camerun c’era Abdoulaye Mamat, un giocatore nazionale del Ciad che aveva giocato per il Tonnerre Yaoundé.
Il club aveva il problema di sostituire niente meno che George Weah, che stava per trasferirsi al Monaco, e Abdoulaye che mi aveva visto giocare in un torneo a N’Djamena aveva fatto il possibile e l’impossibile perché fossi io l’erede di Weah.
In quel periodo era molto raro che si verificassero dei trasferimenti di giocatori da un club Africano ad un altro, ma Abdoulaye convinse tutti, quelli del Tourbillon e quelli del Tonnerre.
Il problema al mio arrivo fu quello di dover fare dimenticare, se possibile, Weah, anche perché quel Liberiano era proprio un’ira di Dio!
In più i tecnici Camerunensi erano molto scettici riguardo al mio fisico, e di conseguenza alla mia tenuta: ero molto più esile dei giocatori locali. Sono riuscito ad averla vinta, conquistando dirigenti e tifosi con prestazioni fantastiche, la mia intelligenza calcistica ha avuto la meglio su un fisico poco appariscente, con orgoglio posso dire di essere riuscito a non far rimpiangere la partenza di Weah, anche se logicamente George era insostituibile. Quell’anno, ho segnato quindici reti in campionato e vinto la Coppa del Camerun.
Con il Tonnerre ho giocato sempre ad altissimo livello, fino alla vigilia di una semifinale di Coppa dei Campioni d’Africa contro i Marocchini del Raja Casablanca. Era morto mio fratello maggiore, il mio esempio. Ero distrutto dal dolore, non avevo la forza per affrontare una partita di calcio. Chiesi ai dirigenti di poter tornare in Ciad per essere presente alle esequie e così poterlo salutare per l’ultima volta, ma i dirigenti del club rifiutarono seccamente. Gli Inglesi dicono “the show must go on”, ma io non sono Inglese, così ho rimesso le quattro cose che avevo nella stessa borsa di quando ero arrivato e sono ripartito per il Ciad. Stavolta però in aereo, ora avevo dei soldi. Da allora in Camerun non sono mai più tornato.
Ho seguito le ragioni del cuore, il calcio per una volta poteva pure aspettare.
Durante uno stage di selezione della Nazionale del Ciad in Francia, a Saint-Brevin, venni notato da un tecnico del Nantes Atlantique. Venimmo invitati tutti al loro centro di formazione, alla Jonelière e assistemmo a due incontri allo Stade de la Beaujoire. Dopo soli quattro mesi il Nantes mi invita a fare un provino. Il selezionatore della Nazionale, il signor Daouda, fece l’impossibile per farmi ottenere un passaporto “volante”, e i suoi sforzi sono stati ripagati, perché dopo il provino il Nantes decide che sono all’altezza del calcio Europeo. Però les Canaris avevano già due giocatori extracomunitari tesserati, uno dei quali era l’Argentino campione del mondo Jorge Burruchaga. Così all’inizio non ho avuto modo di giocare, mi allenavo in settimana con il gruppo poi i miei compagni giocavano ed io restavo alla Jonelière, da solo.
Non è facile a ventiquattro anni dover stare fuori a guardare. Però ero passato attraverso la guerra, ero sicuro che tutto si sarebbe sistemato. Infatti ho conosciuto un tizio, Christian Chauvin, uno di Nantes che aveva vissuto in Ciad, diventammo molto amici, trascorrevo i fine settimana a casa sua e mi aiutava a risolvere tutte le beghe amministrative. Se non ci fosse stato lui sarei ancora perso nei corridoi della burocrazia.
L’occasione di un contratto da professionista arriva grazie ad un grande gesto proprio di Burruchaga. Si era infortunato gravemente ai legamenti di un ginocchio e avrebbe perso tutta la stagione, così decise di liberare il posto da extracomunitario per me. Un vero gentiluomo: classe ed umiltà! Mi è stato molto vicino i primi tempi, anche quando non sentivo la piena fiducia di mister Blazevic. Però non mi sento di dargli torto a “Blaz”, prendevo il posto di Burruchaga e le domande erano lecite. In quella prima stagione ho messo insieme diciannove presenze e due reti, ma soprattutto ho mostrato classe e grande visione di gioco.
Nel millenovecentonovantatre ho incrociato Burruchaga durante un incontro con il Valenciennes, dove si era trasferito, mi disse di essere rimasto impressionato non solo dal talento ma anche dal mio modo di stare in campo.
Credetemi, ricevere complimenti da chi ha sollevato una Coppa del Mondo fa davvero piacere.
Poi, in seguito ad una crisi societaria, il Nantes fu costretto a cedere diversi giocatori, fra i quali Desailly, Le Guen e Eydelie. Il tecnico Blazevic andò via e al suo posto arrivò Coco Suaudeau. Il suo compito era quello di ricostruire una squadra che tutti davano per spacciata.
Questa sfida mi ha stimolato molto: mister Coco è sempre stato molto positivo, aveva creato un gran gruppo, con gente come Patrice Loko, Reynald Pedros, Nicolas Ouédec, Claude Makélélé, e Christian Karembeu, così da condannati che eravamo nel millenovecentonovantacinque, tre anni dopo il suo arrivo, vincemmo addirittura il titolo di Campioni di Francia, il settimo per les Canaris.
In quella cavalcata trionfale ho segnato dodici reti, e giocavo ancora da centrocampista. Gioco ad un tocco, moto perpetuo, tutte queste mie caratteristiche si sposavano alla perfezione con l’idea di calcio offensivo di mister Coco, il famoso “jeu à la nantaise”. Sono diventato pian piano Le Sorcier de la Beaujoire. Il catalizzatore del gioco del Nantes. Sarà il destino o chissà cosa, ma ho messo la mia firma su tanti momenti importanti della storia recente del Nantes: la rete numero duemila in massima serie su calcio di rigore contro il Lille OSC o la rete che poteva riaprire la semifinale di Coppa dei Campioni del novantasei contro gli Italiani della Juventus. L’anno dopo l’exploit in Coppa Campioni mister Coco ha l’intuizione di spostarmi un po’ più avanti, in attacco. Certo l’intuizione fu forzata dalla partenza di Patrice Loko per il PSG e dal lungo infortunio di Nicolas Ouédec. Sfruttai come meglio non potevo quest’ennesima chance, la mia conversione in centravanti mi ha portato a segnare ben ventun reti nel novantasette.
Vedete, nella vita spesso c’è solo bisogno che qualcuno creda nelle tue capacità. Nella vita c’è bisogno solo di una chance, e io, di occasioni ne ho avute proprio tante.
- FC Nantes (1992/1993) : Nantes-Nîmes, but de Japhet N'Doram via Youtube