Non chiamatemi George Best

Ezio Vendrame

Ezio Vendrame

Ala. Casarsa della Delizia, 21 novembre 1947 – Treviso, 4 aprile 2020

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Con il pallone facevo quello che volevo.
Con la testa pure.
Io sono sempre stato così. Prendere o lasciare.

I giudizi morali li lascio ai pressappochisti. E non mi permetto di dare giudizi! Semplicemente perché ognuno è così com'è. La bellezza degli esseri umani è appunto nell'unicità di ciascuno.

Anche la classica definizione che imperversa da più parti, quel "è tutto genio e sregolatezza", mi fa cagare! Ma perché tutti vogliono incasellarmi in qualche modo? Io voglio essere soltanto me stesso. Io sono stato, sono e sempre sarò Ezio Vendrame.

Punto e basta.

Sono nato a Casarsa della Delizia, in Veneto, nel millenovecentoquarantasette.

Si, la reminiscenza che molti di voi ha avuto è giusta, Casarsa è lo stesso paese che ha dato i natali a Pier Paolo Pasolini. Uno dei più grandi intellettuali italiani. Pasolini diceva che dopo la letteratura e l'eros, il calcio era l'unica cosa in grado di dare emozioni autentiche.

Il calcio come lo intendeva lui, però, e come lo intendevo io.

Ma lasciamo riposare i morti, e torniamo a parlare di me.

La mia vita ha inizio con un grande trauma, che non è banalmente quello di abbandonare l'utero materno, da questo punto di vista siamo tutti traumatizzati, no, io all'età di sei anni sono stato affidato dai miei genitori ad un orfanotrofio. Io sono stato abbandonato, ed è per questo che mi sento un orfano, ma con i genitori.

Cosa ricordo di quel periodo dite?

E cosa volete che ricordi! La fame, la paura, la pipì che facevo nel letto, le angherie dei più grandi ricordo, ma soprattutto, e più di tutto, quell'abisso, quel vuoto immenso dell'assenza.

Però mi piaceva giocare al calcio, mi faceva sentire libero, e proprio mentre stavo giocando una partitella assieme agli amici, durante le vacanze estive trascorse alla colonia dell'orfanotrofio, il medico sociale dell'Udinese mi nota ed ecco, il calcio da passione diventa professione, ma per me, in fin dei conti, è sempre rimasto poesia. D'altronde sono nato nello stesso paese di Pasolini, e con la poesia devo avere un conto aperto evidentemente.

Ezio Vendrame al Lanerossi Vicenza

La mia è stata una carriera turbolenta, ho cambiato diverse maglie in anni in cui i trasferimenti da una squadra all'altra non erano così frequenti: SPAL, Torres, Siena, Rovereto, Lanerossi Vicenza, Napoli, Padova…

"El Paròn" Nereo Rocco mi dava del pazzo, e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere. Semplicemente io amavo giocare a pallone, ma non mi piaceva fare il calciatore. Mi sentivo stretto, risucchiato, prigioniero, anche perché i vincoli, non solo societari ma anche morali erano ancora molto forti, in quegli anni Settanta. Avevi voglia a dire che c'era stato il Sessantotto, che la contestazione giovanile aveva cambiato il mondo… L'Italia era ancora un paese retrogrado e bigotto, ed il mondo del calcio non era differente, anzi, era una cartina al tornasole di quella società.

Ad ogni modo fare il calciatore aveva i suoi vantaggi, questo è indubbio, ieri come oggi, ti poneva al centro dell'attenzione, e così avere delle donne era facilissimo, e io non mi tiravo certo indietro, poi io ho sempre avuto una passione per le femmine, avrei sputato sangue e donato un rene per la figa. Però, come vi dicevo, quelli erano tempi di vacche grasse e quindi quei sacrifici non servivano. Ero diventato letteralmente un can da figa. Per me era impossibile resistere al richiamo dell'odore di femmina. E quasi sempre scordavo che avrei dovuto fare soltanto il calciatore. I lunedì erano giornate di riposo per i calciatori. Non per me: i miei erano pieni fino all'orlo. La mia casa sembrava uno studio di ginecologia. La giornata di visite iniziava già alle nove del mattino con la signora Giuliana; alle undici sarebbe arrivata la signora Carla; alle quattordici la mia amica Lella; alle diciotto quella troia della Fernanda e infine, alle ventidue, toccava alla novità della settimana.

Ero spesso in giro con il mio grande amico Gianfranco Zigoni, coetaneo e conterraneo, quanto casino abbiamo fatto assieme non potete immaginare. Le cene da "Luigino", una trattoria magica di Vicenza, una sorta di rifugio, ci davamo dentro in quel locale, quasi ogni sera, a volte fino a notte fonda, bevendo, mangiando, ridendo, suonando, godendo ed esagerando. Eravamo l'eccesso a tutta forza! Se riuscivi a sopravvivere a Luigino e a una delle sue nottate, affrontare una partita di calcio diventava un'inezia!

Soltanto io conosco le mie partite infinite, quelle che cominciavano ogni sabato notte e terminavano alle prime luci dell'alba quando i miei compagni ancora dormivano ed io, con la sigaretta in bocca ero già in giro per la città alla ricerca di un caffè e di un cesso dove vomitare la bile. E soltanto i miei compagni e i miei allenatori sanno che non potevo pranzare prima di una gara perché se avessi ingerito anche un solo grissino, avrei rigurgitato l'anima! Come avrei potuto essere un calciatore vero in quelle condizioni? Ad ogni fischio d'inizio ero già distrutto, avevo già giocato, avevo già finito. Però, nonostante tutto, c'è chi si è sempre accontentato. Anche solo delle mie briciole!

Ed ecco appunto le mie briciole calcistiche, perché di me si ricordano degli episodi, e questo mi va bene, significa che quelle briciole hanno lasciato un sentiero.

Durante una partita contro il Milan a San Siro, ad esempio, mi si para davanti niente meno che Gianni Rivera, "l'Abatino" lo chiamava Gianni Brera, faccio una leggera finta e lui istintivamente apre le gambe e io istintivamente gli faccio un tunnel. Gli chiesi subito scusa!

Perché?

Come perché?

Perché Gianni era un artista del pallone, e umiliarlo così, mi dispiacque tantissimo. D'altra parte però un po' fu anche colpa sua, lui allargò le gambe, e chi allarga le gambe, nel calcio come nella vita, ti spinge sempre a fare qualche cosa!

Un'altra volta dopo aver dribblato tre difensori e messo a sedere il portiere con una finta, invece di fare goal me ne sono tornato tranquillo verso la metà campo. Quando mi hanno chiesto il perché di quel gesto ho detto di averlo fatto perché anche il portiere è un uomo e merita una seconda possibilità.

Altre volte salivo con tutti e due i piedi sul pallone e mettevo la mano di taglio davanti alla fronte per scrutare l'orizzonte, lo chiamavano "il gesto della vedetta", e non era voler polemizzare con i miei compagni che non si smarcavano. Semplicemente quei trenta centimetri di altezza in più mi permettevano, per davvero, di dare un'occhiata migliore al piazzamento dei miei. Pochi aggiungono che spesso, dopo avere fatto la "vedetta" in quel modo, magari ti pescavo un attaccante con un lancio di quaranta o cinquanta metri, e d'esterno per giunta.

Ve lo dicevo che ognuno può interpretare le cose come vuole, è solo che tutti o quasi tutti almeno, cercano di trovare del dolo, del marcio in quelli che sono gesti puri e senza malizia.

Come quell'altra volta, che contro l'Udinese, mi sono soffiato il naso alla bandierina del calcio d'angolo. Ma vi pare bello vedere quei giocatori che si puliscono il naso con le mani? Io ero lì per battere un corner, e mi sembrò più fine, se vuoi anche più educativo, usare la bandierina come fosse un fazzoletto. Tutti hanno gridato allo scandalo, alla provocazione, nessuno ricorda però che subito dopo, annunciai alla tribuna che avrei segnato direttamente dal corner. E così feci. Per una volta rubai la scena a "O Rei" Palanca, lui che dal calcio d'angolo segnava sempre!

Un'altra volta, giocavo nel Padova, e, seppur indirettamente un mio eccesso provocò una tragedia. Si giocava contro la Cremonese. In campo avevano deciso la "torta", o il "biscotto", se preferite. Erano gli anni Settanta, ci fu lo scandalo del "Calcioscommesse", ma a me questo tipo di cose non è mai andato giù. Non potevo prendermela con gli avversari e puntare verso la loro rete. Ma potevo prendermela con i miei compagni di squadra, così, dal centro del campo, feci dietro front e puntai verso la nostra area. Qualche compagno, ripresosi dallo spavento, mi si fece incontro ma io lo saltai secco in dribbling, fino a trovarmi a tu per tu con il nostro portiere. Solo a quel punto, e dopo aver fatto finta di tirare, blocco il pallone con la pianta del piede. Ricordo il sospiro come di sollievo di tutto lo stadio. Solo che a fine partita venni a sapere appunto del dramma: un tifoso si era spaventato a tal punto da morire di infarto.

Comunque, tante, veramente troppe volte sono stato avvicinato per truccare l'esito di una partita. Ma non mi sembrerebbe onesto, da parte mia, tornare ora su quegli episodi. Non ho denunciato nessuno allora, sarebbe ipocrita agire diversamente adesso.

Stavo bene, e ciò lo dovevo in parte al fatto di essere un calciatore, non tanto dal punto di vista economico quanto per le libertà che riuscivo a prendermi. In generale… Forse c'era più autenticità, c'era più spazio per le emozioni. Per uno come me erano cose importanti, io avevo bisogno di sentire, ovunque, il calore, la poesia…

Ve l'ho detto, e torno a ripeterlo, sono nato nello stesso paese di Pier Paolo Pasolini, e con la poesia devo avere un conto aperto io. Infatti nel millenovecentosettantacinque conosco Piero Campi, poeta Livornese, uno che in qualche modo la mia vita l'ha cambiata, anzi, che la mia vita l'ha proprio segnata. Un amicizia profonda, incondizionata. Piero raccontava spesso che un giorno, a Padova, si trovava a vedere una mia partita, e che, quando lo scorsi in tribuna, fermai il gioco e, fra lo stupore generale, andai a salutarlo.

Gli amici, che gran cosa!

Oggi scrivo, anche poesie certo, e insegno calcio ai ragazzini, e sapete una cosa, affanculo pressing, squadra corta, fuorigioco e diagonali. Ci sputo sopra agli inventori di queste cagate! Il calcio vero è un'altra cosa, ha un'anima che almeno a livello giovanile dovremmo salvaguardare! A loro dico che a quattordici o quindici anni è normale farsi le seghe e se trovano una ragazza che collabora è ancora meglio! Casomai è chi non se le fa che è malato e non è giusto che giochi. E la domenica, quando abbiamo dato tutto e siamo a posto con la coscienza, dobbiamo sempre accettare anche la sconfitta, senza alcun dramma, perché il gioco del calcio è soltanto un gioco: una piccola cosa della vita. Non dobbiamo stare male più di tanto quando perdiamo una partita, ma quando perdiamo un affetto, o quando deludiamo qualcuno che ci ama! Ma tutto questo loro lo capiscono subito. Sono gli adulti che non comprendono, a cominciare dai genitori. Per questo motivo sogno da sempre di allenare una squadra di orfani!

Non ho rimpianto alcuno. Zero. Ho fatto della mia vita un capolavoro e continuo a farlo perché ho sempre fatto il cazzo che ho voluto, e, speriamo che quel sentiero di briciole che mi sono lasciato alle spalle sia percorso da qualcuno… prima o poi.

Illustrazione a cura di Fútbolismo © Tutti i diritti riservati
Fotografie e video
  1. Ezio Vendrame al Lanerossi Vicenza - Public Domain via Wikipedia
  2. Hellas Verona - L.R. Vicenza 2-2 (1972) - gol e traversa di Ezio Vendrame via Youtube
Le parole liberamente attribuite a Ezio Vendrame sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, sono ispirate a fatti realmente accaduti e in seguito romanzate.