“S eñor? Señor? La Tricolor ya esta en la cancha!
El partido! El partido señor! Todos estan esperando!”
“Finisco questo mojito e arrivo niño.”
Come quasi sempre vengo a bere un mojito corroborante prima di affrontare la partita con la Tricolor.
Il chiringuito poi è proprio vicino al campo di gioco, un posticino pulito, illuminato bene, dove i mojitos sono deliziosi e la mulata che li prepara ancora di più.
Sullo sgabello accanto a me c’è una maglietta della Nazionale Italiana, una di quelle con cui l’Italia ha vinto la Coppa del Mondo nel duemilasei a Berlino. Me l’ha spedita, insieme ad altre dieci, il mio amico Marcello. La Tricolor doveva pur avere una maglia! Ed io dovevo pur avere l’occasione di vestire l’Azzurro!
Gioco per la Tricolor insieme ad altri Italiani che vivono a Cuba. Lo facciamo tanto per divertirci, tanto per passare il tempo, infatti partecipiamo a un torneo over quaranta.
Però senza di me non giocano. Mi aspettano. Altrimenti prendono di quelle batoste sul campo! Perché tutti dicono che vogliono solo divertirsi, però, alla fine, sotto sotto, nessuno vuole mai perdere.
Così mi mandano a chiamare.
Io con Marcello ci ho giocato insieme nella Sampdoria. Quella di fine anni Settanta. Se chiedete a lui, vi dirà, che è lui ad aver giocato insieme a me, comunque sia, abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, io ero giovanissimo, lui un giocatore fatto e finito.
“C’è un suo compagno di squadra che avrebbe meritato molto di più di quello che ha avuto dal calcio?” gli hanno chiesto una volta. Lui ha risposto: “Alviero Chiorri, qualità tecniche e atletiche a livello dei più grandi”. Detto da uno che ha allenato Zidane e Del Piero!
Alviero Chiorri, appunto. Sono io.
Al collo, allacciate l’un l’altra, porto gli scarpini da calcio. Sono diversi. È sempre stato così. Molti l’hanno dipinto come il mio piccolo segreto, in realtà l’ho sempre fatto. Al piede destro tenevo i sei tacchetti da campo pesante anche se il terreno era asciutto, perché volevo che la gamba d’appoggio fosse stabile, ben radicata. Al sinistro, estate o inverno che fosse, mettevo lo scarpino coi tredici tacchetti perché volevo che la gamba creativa mantenesse più libertà di movimento. Tutto qui.
Sono nato il due marzo del Cinquantanove a Roma.
Ho iniziato a giocare al calcio perché mi faceva impazzire far impazzire quelli che venivano a vedermi giocare. Era per loro che rischiavo sempre la giocata più spettacolare, quella meno scontata. Io ho sempre giocato solo per il pubblico, fosse una sola persona o fossero ottantamila!
Questa è la cosa mi ha spinto a giocare al calcio, sono sempre stato così, fin da ragazzino, quando calcavo i campi di provincia con la Pro Roma. Chissà poi se esiste ancora. Però spero proprio di sì!
Avevo quindici anni quando è arrivata la Sampdoria, prima fra tante altre squadre, e si è presentata con una di quelle offerte che proprio non si potevano rifiutare. Così risalgo la costa tirrenica da Roma direzione Genova.
Nelle giovanili della Doria mi diverto e subito arrivano le prime gratificazioni, vengo convocato dalla Nazionale Italiana Juniores. Arrivo a Coverciano dove mi aspettano Allodi e il mister Acconcia che mi comunicano che sono uno dei convocati per partecipare ai Mondiali di categoria che si svolgeranno in Tunisia. Ho strabuzzato gli occhi! Non potevo credere alle mie orecchie. Rispondo semplicemente: “Voi siete pazzi! Io devo andare al mare con i miei amici! Non se ne parla proprio!”. Il risultato è stato semplice. Mi hanno mandato via, anzi, mi hanno cacciato, scortato da due carabinieri.
Quel giorno ha segnato il mio addio alla maglia Azzurra.
Subito dopo arriva anche la convocazione per il raduno in prima squadra con la Sampdoria. Il mio primo raduno. Una di quelle presentazioni ufficiali in cui si arriva in divisa, eleganti e precisi. Io ci sono arrivato in sandali e bermuda, una catena d’oro al collo in bella vista così come i tre orecchini. Avevo fatto una corsa direttamente dalla spiaggia. Che poi fra l’altro sono stato il primo calciatore a sfoggiare l’orecchino al lobo sull’album di figurine Panini. La bibbia del calcio!
Avevo una testa diversa, volevo solo divertirmi, e lo facevo, in campo e fuori. Alla Sampdoria eravamo un bel gruppo davvero, frequentavamo un bar dove suonavano i New Trolls, presto siamo diventati molto amici.
C’era una cosa che non riuscivo a farmi entrare in testa: ero un professionista. Ma se l’avessi capito non staremmo certo qui a parlare di Alviero Chiorri detto “Il Marziano”!
“Il Marziano”, così mi chiamavano con affetto i tifosi blucerchiati, avevano coniato per me questo nomignolo che mi ha accompagnato per tutto il resto della carriera.
Ad appena diciassette anni, nonostante tutti i casini che combinavo, riesco a fare il mio esordio in massima serie, era la stagione Settantasei/Settantasette, ed Eugenio Bersellini, allora tecnico della Samp mi manda in campo.
Un sergente di ferro Bersellini, un vero rompicoglioni, però sotto sotto mi ha sempre voluto bene, è solo che non era in grado, come nessuno d’altronde, di trovarmi una collocazione in campo. Intendiamoci, non perché non fosse preparato! Il problema piuttosto ero io, che ero ingestibile!
Bersellini! Mi cacciò, pure lui, il giorno del primo raduno perché ero impresentabile! Però capì quanto talento avevo. Era duro con me, molto più che con gli altri. Si incazzava perché non riusciva a capire il mio atteggiamento, la mia indisciplina. Sapeva di avere davanti un grande talento, ma sapeva pure che quel talento io l’avrei buttato nel cesso!
Quando due anni dopo andò via, a vincere lo scudetto con l’Internazionale, il sergente Bersellini mi voleva portare con lui, invece la dirigenza nerazzurra alla fine decise per Beccalossi.
Così rimasi a Genova. Alla gente di Marassi piacevo da impazzire; erano gli anni della riapertura delle frontiere, in Italia c’era la corsa ad accaparrarsi campioni o presunti tali provenienti da ogni dove, e invece la gente di Marassi cantava allegra in coro: “Alviero Alviero sei tu il nostro straniero!”
Durante una gara di Coppa Italia a Firenze, mi marcava Roggi, ero in una giornata di grazia. Ero scatenato: finte, contro finte, dribbling, tiri, passaggi impossibili. Ad un certo punto sento una voce alle mie spalle: “Ragazzino, ci hai rotto le palle! O la smetti o ti fermiamo con le cattive!” Era il grande Antognoni, capitano della Viola che difendeva il suo compagno.
Ma come vi dicevo ero davvero troppo anarchico, in campo e fuori, così mi spedirono in prestito a Bologna, “a fare esperienza”. In rossoblù incontro due ragazzi incredibili, Mancini e Macina. Eravamo un trio favoloso. Tecnicamente Macina era il più forte, ma la differenza tra noi la faceva Roberto, più potente, più calciatore. Mancini era stregato dai miei numeri. Pensando al “Mancio” nel corso degli anni ho capito che nel calcio non è solo una questione di tecnica, semplicemente il campione vero è più completo sotto tutti gli aspetti.
Comunque l’anno dopo faccio ritorno a Genova. Con me arriva anche il “Mancio”. Doveva essere la mia consacrazione, invece la Sampdoria stava crescendo, e io non andavo al passo con la squadra, così, dopo due anni a un certo punto il Presidente Mantovani si vide costretto a cedermi alla Cremonese, nell’operazione che portò in blucerchiato Gianluca Vialli. Quando mi salutò, aveva le lacrime agli occhi, mi lasciò con una frase che mi sono portato dentro fino all’ultimo giorno che sono sceso in campo: “Alviero, sei stata la più grande delusione della mia vita: con la tua tecnica chissà dove saresti potuto arrivare…”.
Il Presidente Mantovani era una persona meravigliosa. Non credo ci siano più uomini come lui nel mondo del calcio. A Genova stavo bene, mi ero sposato e avevo un figlio, i tifosi impazzivano per me e quella squadra che pochi anni dopo sarebbe arrivata allo scudetto.
Ma io non ero pronto.
Il patron della Cremonese era Domenico Luzzara, un altro galantuomo. Aveva da poco perso un figlio e lo rivedeva in me. Mi aiutava in tutti i modi, mi coccolava addirittura. Mi hanno cercato tanti grandi club in otto anni di Cremonese, ma non me la sono più sentita di lasciarlo. Diceva sempre in modo affettuoso che ero un pazzo a cui volevano bene tutti. Lo stadio Zini custodisce ancora il ricordo delle mie esibizioni migliori.
Non potrò mai dimenticare una partita contro il Messina. Ero in panchina, ultimi secondi di gioco, risultato inchiodato sullo zero a zero, punizione dal limite per noi. L’accompagnatore si butta ai miei piedi e mi strappa la tuta, mentre il mister mi butta in campo. Mi ritrovo senza riscaldamento, a sistemare il pallone per calciare la punizione: palla oltre la barriera. Rete!
In grigiorosso ho vissuto anche la peggiore esperienza della mia vita.
È la stagione Ottantotto/Ottantanove. Non sto più bene. Sono stanco, svogliato, nervoso. Vorrei smettere. Mi manca entusiasmo e litigo con tutti.
È la depressione. Difficile accettarlo. Inizialmente rifiuto i medicinali, poi alla fine hanno dovuto ricoverarmi in clinica. Quattro mesi di cure e psicofarmaci. E il cortisone che mi ha regalato quindici chili di sovrappeso.
In quei quattro mesi intanto la Cremonese era arrivata a giocarsi la promozione in Serie A allo spareggio con la Reggina.
Vengo convocato giusto per la partita decisiva. La sfida che vale la promozione finisce ai rigori. Il mister mi manda in campo per i tiri dagli undici metri: è il mio turno. Tocca a me. Metto con delicatezza la palla sul dischetto. Prendo la rincorsa ma, in quel piccolo, insignificante tragitto che è la rincorsa mi tornano in mente la depressione, la clinica e tutto il resto.
Il tiro infatti è senza forza, sbilenco. In sostanza ho calciato un rigore di merda. In definitiva fuori.
Mi crolla tutto addosso, penso: “ci risiamo!”
Inizio a pingere per la rabbia, forse per la disperazione, poi arriva Rampulla, mi dice calmo: “Tranquillo Alviero, ora ci penso io!”
Va in porta: tiro, parata; tiro, parata. La Cremonese torna in Serie A, ed io mi sento rinato.
Poi gli ho reso il favore a Rampulla. Su mio assist ha segnato una rete all’ultimo minuto diventando il primo portiere a segnare in Serie A su azione.
Alla fine, il ventiquattro maggio millenovecentonovantadue ho detto basta. L’ho fatto davanti ai tifosi della Samp indossando la maglia grigiorossa della Cremonese. La migliore conclusione possibile. Sono uscito dal campo accompagnato dal mio coro: “Alviero Alviero sei tu il nostro straniero!”
Complessivamente ho totalizzato centotré presenze e nove reti in Serie A e duecentotrentaquattro presenze con quarantatré reti fra i cadetti. In definitiva una buona carriera, nonostante tutto.
“Beh, mulata, me voy!”
Infilo la maglia della Nazionale Italiana. La tengo fuori dai calzoncini. Come sempre.
Calzettoni abbassati. Come sempre.
Non è una questione di apparenza, è solo pura e meravigliosa pigrizia.
Come sempre!
D’altronde a Cuba ho la mia vita, non faccio niente e mi piace non fare niente, o quasi.
Come sempre!
- Alviero Chiorri, l'ultimo dei romantici - via Storie di Calcio
- Genova, stadio Luigi Ferraris, 28 novembre 1982. Alviero Chiorri e il genoano Pasquale Iachini inseguono il pallone nel corso del derby di Genova tra Genoa e Sampdoria (1-1) valevole per l'11ª giornata del campionato italiano di Serie A 1982-1983. via Wikipedia
- Cremonese, foto di squadra per la stagione 1991-1992 via Wikipedia