Fino al 1980 il Brasile per i calciofili italiani era sinonimo di allegria, di Pelè, di futebol bailado, di torcidas. Nessuno pensava neanche lontanamente che a quella parola potesse essere associato un elemento di tristezza. A meno che qualcuno non si interessasse anche di arte, e allora dalle fotografie di Salgado piuttosto che dalle poesie di Vinicius de Moraes questo dark side della cultura brasiliana poteva essere intuito facilmente.
Poi arrivò il 1980, e il calcio italiano riaprì nuovamente le frontiere, nel senso che si consentì alle squadre di serie A di tesserare un calciatore proveniente da federazione estera, dopo quattordici anni di blocco, conseguente al tiro mancino del dentista coreano più famoso della storia. Sbarcarono così in Italia campioni conclamati (pochissimi), giocatori affidabili (parecchi) e oggetti misteriosi (non pochi). Alcuni tra questi si rivelarono veri e propri bidoni, su altri il giudizio rimane ancora sospeso dopo più di quarant’anni. Su Enéas de Camargo, per esempio.
Lo ingaggiò il Bologna, che era sempre sospeso tra un passato glorioso ma ingombrante, e un presente senza grandi pretese. Nel 1980, in particolare, si era aggiunto il macigno del calcio scommesse, con una retrocessione scampata per poco (all’epoca il Bologna era una delle tre squadre mai retrocesse in serie B), e una forte penalizzazione che rendeva quel campionato una corsa ad handicap. In più, c’era da rimpiazzare i tanti giocatori squalificati.
Enéas era un nome che poteva far tornare l’entusiasmo fra i tifosi rossoblu. Proprio il nome, intendo, quello dell’eroe cantato da Virgilio, che poteva far presagire imprese eroiche. Il palmares calcistico, invece, poteva lasciare qualche dubbio, anche se potevano rassicurare le sue apparizioni nei resoconti dei campionati brasiliani del Guerino.
Il suo sorriso conquistò tutti, quando arrivò in un’estate segnata per sempre da una mattina di agosto purtroppo indimenticabile per Bologna e la nazione intera. Il suo tocco di palla e le sue movenze erano un marchio di fabbrica verdeoro, e il suo modo di giocare pure. Ma sarebbe stato compatibile con le esigenze del calcio italiano, con il trattamento dei difensori italiani, e soprattutto con la necessità del Bologna di far tanti punti subito?
Il mister era Gigi Radice, uno abituato a Graziani e Pulici, non ai ballerini; però ci provò a scommettere sul brasiliano, e a spiegargli come giocare in serie A senza perdere l’allegria: mica facile. A Enéas piaceva il bel gioco, accarezzare il pallone, parlarci, trattarlo dolcemente, farselo amico. Spararlo con cattiveria verso la porta non era da lui. Ma al Bologna servivano i goal più del bel gioco. Così ogni tanto il 9 lo indossava Giuliano Fiorini, che tanti complimenti non ne faceva, e il brasiliano si accomodava in panchina, dove faceva freddo.
Già, il freddo, questo sconosciuto. Bologna, si sa, riesce a essere la città più calda e più fredda del mondo, ed Eneas per il freddo non era proprio attrezzato. Non ci si ritrovava, non faceva per lui. Freddo, gioco concreto, panchine, saudade. E fu così che sui giornali sportivi fece la sua apparizione questo termine che si potrebbe tradurre nostalgia ma è molto di più. E fu così che i calciofili italiani scoprirono che anche i brasiliani possono essere tristi, e qualche anno dopo sull’argomento si fece pure un cult movie: L’allenatore nel pallone.
Questa saudade diventò presto leggenda, nel senso che o Enéas sorrideva, oppure si faceva presto a dire che era vittima della saudade. Chi lo frequentava per davvero giura che non era così, ma ormai lo avevano detto i giornali e quindi.
E quindi al tirar delle somme i goals rimasero pochini, e le prestazioni realmente convincenti pure. La migliore di tutte contro la squadra più forte, la Juventus che era mezza nazionale a breve campione del mondo. Di lui, scomparso troppo presto, si ricorda con dolcezza quella partita, il sorriso, il tocco vellutato e soprattutto la saudade.
- Enéas in azione con la maglia del Bologna - Storie di Calcio