Il suono perentorio della campanella si era appena diffuso per i corridoi della scuola, e la maestra si ricordò allora di annunciare alla classe che già cominciava a scalpitare tra i banchi, che ad attenderci al campo avremmo trovato un nuovo professore di educazione fisica. Era già il terzo, ed era appena l’inizio di novembre.
Eravamo così terribili da far scappare tutti? Questo il mio interrogativo, mentre mi scaraventavo giù per le scale insieme ai compagni.
Arrivammo al campo, dove trovammo ad aspettarci un giovanotto biondo. Lo sguardo serio, un sorriso appena accennato. La maestra ci consegnò a lui, dopo avercelo presentato, esitando nella pronuncia di quel cognome curioso. Lui agitò lievemente il ciuffo biondo, e ci invitò sommessamente a cominciare a correre attorno al campo. E noi cominciammo.
Al primo passaggio dal punto di partenza, mi sembrò di notare che la maestra tardasse a rientrare nell’edificio. Forse voleva godersi la bella giornata, forse le sembrava il caso di soffermarsi col nuovo collega, magari non solo per cordialità professionale. Lui intanto incitava ad aumentare il ritmo, con la sua buffa cadenza straniera.
“E’ cecoslovacco!” disse quello che ne sapeva sempre più degli altri, alcuni dei quali non sapevano nemmeno cosa intendesse dire. “Cioè? Ha problemi di vista?”
E intanto i giri di campo si susseguivano. Poi finalmente ci fermò. Esercizi a corpo libero, si chiamavano a quei tempi. Poi pausa di rifornimento idrico, alla magnifica fontanella. Al ritorno, qualcuno pensò bene di far rotolare il pallone che si era portato da casa, e di entrare in campo per tirare quattro calci. La palla ad un certo punto arrivò verso di me, a una buona distanza di tiro in porta. Mi ci avvicinai e feci per caricare il destro.
“Pooosa quel palone!” mi gridò il biondo, e fu l’unica volta che gli sentii alzare la voce, in quel mese scarso che passò con noi. Lievemente, ma in modo determinato.
Autorevole, non autoritario. Mi fermai subito, e quel tiro mi rimase in canna per tutta la vita. L’avrei messa all’incrocio, lo so.
Sono le uniche parole che ricordo di lui, perché i giri di campo ce li comandava con un gesto del dito. Le ripeteva ogni volta che qualcuno ci provava, a tirar fuori quel pallone, implacabile, lezione dopo lezione. Un campo di calcio, enorme, il sogno di ogni bambino, ma noi non potevamo entrarci, dovevamo solo girarci intorno. E se ci riprovavamo, sapevamo cosa ci attendeva.
“Poosa quel palone!”. Diventò un tormentone, come il “Belo Salvatore” di Montesano che impazzava in tv in quel periodo. Entrò nel nostro repertorio di classe. Peppe, più degli altri, lo imitava alla perfezione, e talvolta lo anticipava. E forse una volta al biondo scappò pure mezzo sorriso. Forse, però; non ci giurerei.
Malgrado ciò, ci stava abbastanza simpatico. Se ne andò dopo neanche un mesetto: supplenza scaduta, di lui ci rimase solo l’imitazione di Peppe.
Quel cognome straniero l’avevamo imparato subito, non era poi così difficile. Che sorpresa, però, leggerlo sul giornale, solo qualche anno più tardi. Ne scrivevano benissimo, di lui e della squadra giovanile del Palermo che allenava. Calcio spettacolo, all’olandese. Ma come? Lui? “Poosa quel palone” era diventato un allenatore di calcio, e pure bravo?
Mio cugino, che da Caltanissetta si spostava a Licata, per ammirare “l’Olanda gialloblù.”, mi ripeteva proprio quel cognome. Ed era proprio lui che vidi qualche anno dopo in tv, mentre tutti convenivano addirittura sul fatto che il suo calcio fosse il più spettacolare d’Italia. E quanti campioni aveva lanciato.
Eppure io, dovessi mai incontrare Francesco Totti, una sola cosa gli vorrei domandare. “Ma a te, qualcuno te l’ha mai gridato: Pooosa quel palone”?
- Zeman alla Lazio nel 1995, assieme a Gascoigne, via Wikipedia